Valore paesaggistico dei Giardini Reali
Voluti da Maria Teresa d’Austria a completamento della Villa Reale, i Giardini Reali occupano una superficie di circa 40 ettari e circondano l’intero edificio da tutti i lati; sono divisi dal Parco retrostante – realizzato trent’anni dopo – da una recinzione che è stata mantenuta nel tempo per qualificare la specificità paesaggistica del luogo come oggetto di ancora maggiore tutela.
La peculiarità dei Giardini Reali è chiaramente indicata negli scritti di artisti, studiosi e rampolli dell’aristocrazia che scelsero di visitare la Villa di Monza e i suoi Giardini come meta ambita del Gran Tour, nell’itinerario alla scoperta delle meraviglie d’Italia, fra Settecento e Ottocento.
Nei primi decenni del Novecento il giornalista Mario Rivière così chiosava un articolo dell’agosto del 1933: «Il disegno complessivo, se rivela una mano maestra, acquista anche maggior rilievo nei particolari. È tutta una gamma di punti di vista che s’offrono al visitatore. Qui veramente [...] possiamo dire che natura e arte, più che gareggiare s’armonizzano. La ricchezza delle visuali, la studiata disposizione di verdi e di acque e di viali fanno dei Giardini della Villa Reale un esempio di come l’architettura di un palazzo possa essere posta in valore dall’impiego del verde, elemento decorativo d’infinite risorse» (p.15).
La creazione dei regi giardini si accompagnò alla realizzazione della Villa Reale, terminati nel 1777; i lavori dei Giardini, iniziati nel 1778 su disegno dell’architetto folignate Giuseppe Piermarini, allievo del Vanvitelli, subirono una battuta d’arresto a seguito della morte dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria (29 novembre 1780) e l’opposizione del figlio che le succedette, Giuseppe II, a sostenere l’ingente spesa per la loro realizzazione; ostacolo definitivamente superato con l’avvento al trono del fratello Leopoldo II nel 1790.
La sistemazione piermarinana dei Giardini Reali si può dire in buona parte conclusa nel 1797, quando, con l’arrivo dell’amministrazione francese, l’incarico progettuale passò nelle mani dell’architetto Luigi Canonica.
Piermarini affiancò ai giardini formali o “alla francese” - orientati sull’asse nord-est, prospicienti la facciata pubblica della Villa, destinati a esaltare lo spirito assolutistico – un giardino all’inglese a testimonianza della sensibilità della corte austriaca per le nuove tendenze in ambito paesaggistico; tendenze orientate a esaltare, nella concezione del giardino, il ritorno a una naturalità solo apparentemente casuale e spontanea, ma in realtà finalizzata a coltivare le emozioni, i sentimenti e la sensazione di sublime, associate alla visione del giardino come rifugio e legame con la storia: «Si spiega così la presenza dei tempietti, rovine, grotte, statue. Il tempietto ionico in particolare, posto in posizione elevata, crea un collegamento tra l’arte, la storia e il giardino che lo accoglie. La Torretta [...], di spiccato gusto romantico, esalta l’atmosfera “fantastica” che si respira nel giardino all’inglese. La linea dei viali segue le irregolarità del terreno con linee curva e trova una sua continuità nel contorno del lago e nei salti d’acqua che vanno a creare un altro laghetto a un livello più basso. [...] I cannocchiali prospettici che partivano dalla Villa Reale [...] permettevano all’osservatore di godere di particolari prospettive dei Giardini; [...] quello principale, partendo dal retro della Villa, taglia i Giardini lungo l’asse est-ovest (unendo idealmente Milano a Vienna e ribadendo in tal modo l’asse del potere politico del periodo), prosegue all’interno del Parco e fornisce un ambiente differente e di maggior respiro rispetto a quello del giardino all’inglese» [Italia Nostra, Percorsi alla scoperta dei Giardini della Villa Reale, 2005].
Piermarini è riconosciuto come il primo in Italia ad aver introdotto le nuove tendenze europee del giardino informale paesaggistico nei Giardini della Villa Reale che si affermarono pienamente con il successore all’incarico, Canonica.
Ritornato in piena epoca austriaca, dal 1818 il complesso monumentale fu scelto come residenza dal Vicerè del Lombardo-Veneto, Giuseppe Ranieri, grande appassionato di scienze naturali, che incentivò la sperimentazione botanica scientifica per la coltivazione e la cura di molte specie rare, facendo dei Giardini Reali un vero e proprio orto botanico, dove tutto si svolgeva nei canoni della massima scientificità raggiunta a quei tempi [V. Donnaruma, Gli Imperial Regii Giardini della Villa Reale di Monza, 1983]. Sotto la direzione di Giuseppe Manetti, i Giardini Reali arrivarono ad avere serre capaci di 1700 generi botanici, 7800 specie e 1400 varietà per un totale di 9000 unità [Fonte d’archivio: Catalogus Plantarum existentium in Horti Regii Villae propre Modoetiam, redatto da Rossi nel 1825 [?]; M.Rosa, Parchi e giardini storici: conoscenza, tutela e valorizzazione, Leonardo, 1991], alternando piante autoctone ed esotiche a carattere monumentale – varie specie di querce e faggi fra cui i faggi penduli, ma anche il Baobab, la Sequoia sempervirens, l’albero della Gomma, il Cedro dell’Himalaya e il Gingo Biloba - a piante da fiori intensamente colorate e profumate– dalle camelie alle azalee, solo per citarne alcune - e a prati il cui verde lussureggiante era abbellito da una miriade di specie di fiori, fra cui il celeberrimo aglio ursino la cui fioritura ancor oggi crea uno spettacolo paesaggisticamente e naturalisticamente unico. I regi giardini erano anche sede rinomata di coltivazioni edibili, con una ricca produzione di verdure, agrumi, ananas e frutta di ogni genere, in continuità con la tradizione illuminista lombarda capace di «cogliere la bellezza utile dei fiori e delle piante» [G. Venturi, Storia delle motivazioni teoriche del primo giardino all’inglese in Italia, in AA.VV., La Villa Reale di Monza, Monza, 1984].
Alla cura di questo patrimonio paesaggistico ma anche agri-colturale, provvedeva una Scuola di Botanica, realizzata da Luigi Villoresi e potenziata dal suo successore Giuseppe Manetti, divenuta meta obbligata per la formazione dei “giardinieri-artisti”.
Malgrado la fama acquisita a livello internazionale, la scuola venne chiusa dopo l’annessione del Lombardo-Veneto allo Stato del Piemonte e il conseguente arrivo in Villa di Umberto I che ne fece un luogo di residenza privilegiata e non più di rappresentanza com’era stata fino ad allora. Da qui il maggior interesse del sovrano sabaudo per la cura degli interni della Villa e non per i regi giardini, sui quali si abbattè, come sull’intero complesso monumentale, l’abbandono conseguente al regicidio del 29 luglio 1900.
Da allora a oggi si sono alternati vari progetti di restauro anche recenti, che stentano a concretizzarsi per la cronica mancanza di fondi, ma anche per carenze gestionali e disformità di orientamenti progettuali, che hanno lasciato campo libero a una visione dei Giardini Reali come contenitore anche di eventi incompatibili con la loro tutela, in particolare con il rispetto e la difesa di un patrimonio botanico pluricentenario, dunque particolarmente fragile, immemori della loro valenza precipua come giardini storici a corredo di un complesso monumentale, «magnifica creazione di tre corti reali e imperiali ridotto – come preconizzava il sacerdote e storico Mario Rosa – a una immensa risibil fiera di porta Genova» [M. Rosa, I Villoresi a Monza, Rivista di Monza, agosto 1933, p.9] e ancora nel 1983, Vincenzo Donnaruma, anima del Gruppo botanico di Monza e Brianza, si chiedeva quando sarebbero finiti gli «anni di oscurantismo per questi mitici giardini” [Donnaruma, Gli Imperial Regii Giardini della Villa Reale di Monza, 1983, p.30].
Elemento essenziale dei Giardini Reali è la componente vegetale che ne attesta la storicità e il preminente valore culturale: «L’aspetto di un giardino storico è il risultato di un continuo equilibrio fra il movimento ciclico delle stagioni, il deperimento della componente vegetale e la volontà di arte e artificio che tende a renderne lo stato. Spesso è difficile distinguere l’azione operata dall’uomo da quella della natura. Per questa sua specificità il giardino storico, ma più in generale le architetture vegetali, devono essere considerate un patrimonio culturale di interesse per l’intera collettività. Alla base vi è sempre un progetto paesaggistico e architettonico unitario in cui si relazionano gli elementi costitutivi del giardino stesso (viali di accesso, elementi di arredo etc.) esprimendo valori culturali e storici» [Rete dei Giardini Storici ReGIS, Giardini storici e sistema del verde, s.d.].
In tale contesto spicca, come elemento paesaggistico determinante, il cerchio di faggi penduli che abbelliva i Giardini con la sua maestosità già in epoca sabauda e certamente negli anni ’30 ma il cui impianto si può supporre possa essere ancor più risalente [Il giro dei faggi è riportato e cartografato nel censimento del dr. Franco Agostoni – 1983-1984, nella Particella 21; per la precisione il giro dei faggi è nella parte “f3” della particella 21. I faggi che costituiscono il grande anello sono i numeri: 4- 5- 6-7-8-9-10-11- 12- 13 – 14 che vennero rilevati non solo come posizione ma anche con i relativi diametri dei tronchi; i diametri vennero misurati all’altezza da terra di m. 1,50. I diametri variano: cm. 28, cm. 30, cm. 41, cm. 63, cm. 66, cm. 67, cm. 76, cm. 77, cm. 82, cm. 86 ( il n. 7); la variabilità dei diametri dimostra che nei decenni i soggetti deperenti venivano sostituiti. Il diametro maggiore di cm. 86 e gli 8 soggetti di diametro variabile tra cm. 63 e cm. 82 attestano che l’impianto dei soggetti presenti nel 1983 avvenne circa cent’anni prima].
Caratteristica del monumento arboreo in esame è la continuità del fogliame che arriva fino a terra e dà l’impressione di essere una sola pianta, un gigantesco cespuglio come lo definì il fotografo Valdemara che lo ritrasse nel 1933:

Caratteristica che è ben visibile nelle immagini che lo ritraggono negli anni ma che è stata spezzata con la scelta degli organizzatori di un recente evento del 2023 a carattere commerciale c.d. “Trame di Luce” di utilizzare proprio il cerchio di faggi come ingresso alla manifestazione.
La gravità del danno prodotto al monumento arboreo da questo e da altri usi non conformi all’intera area dei Giardini Reali, riconosciuta come bene di maggior tutela dal Codice dei Beni Culturalie Paesaggistici del 2004, costituisce un monito affinchè non si ripetano in essa manifestazioni analoghe.
Il giardino all’inglese
Il completamento armonico della Villa Reale sarebbe stato il grande giardino che l’avrebbe circondata con gli ampli parterre che si colgono nei primissimi disegni piermariniani, destinati alla parte anteriore alla reggia, e l’intervento più cospicuo sulla parte posteriore, con la realizzazione di un vasto giardino barocco alla francese sul lato est, caratterizzato da filari alberati, vasi decorativi, statue e due parterre con quattro aiuole regolari a motivi ornamentali arabescati, in corrispondenza delle due ali della facciata posteriore.
A nord di questo giardino, Piermarini realizzò anche un giardino all’inglese, il primo in Italia, fra macchie di bosco e collinette artificiali fra cui si snodavano percorsi sinuosi che aprivano alla visuale di paesaggi di apparente natura incontaminata, sapientemente ricostruita, seguendo i canoni comuni a questo genere di giardini. Maria Teresa inviò due esperti dei giardini all’inglese, Engels e Schiller, a coadiuvare il Piermarini che, nella realizzazione di questa parte del complesso, mise a frutto le sue conoscenze, oltre che di botanica, anche di meccanica e idraulica. A conferire al giardino le caratteristiche che ancora oggi, almeno in parte, lo connotano, vi era, infatti, un laghetto alimentato da un corso d’acqua che proseguiva oltre lo specchio d’acqua, scorrendo fra grotte artificiali pensate per tenervi animali esotici e animando i prati erbosi di rivoli e cascatelle, grazie a innalzamenti e abbassamenti del terreno sapientemente modellati.
Una grotta rocciosa, chiamata l’Antro di Polifemo, venne ricavata da uno degli anfratti, mentre in cima alla collinetta più alta venne realizzato un tempietto dorico a somiglianza di quello dedicato a Flora nel giardino di Stourhead a Stourton Wiltshire. Osservava ammirato Ettore Silva, antesignano del giardino naturale in Italia: «[…] Le vicine rocce sono superlativamente ben imitate, e per di sotto in parte racchiudono grotte, congegnate con bell’artificio di acque, di tuffi e di vedute. Superiormente si ha il laghetto oltremodo vago e delizioso, adornato da un bel tempietto dorico sulla ripa più alta. Qui vi hanno cadute d’acqua, e sulla costa a canto il passaggio aggradevolmente si prolunga. Per di sotto il laghetto si travede un sito orrido e selvaggio, che fa da contrapposto con l’amenità che lo circonda, situato fra sterpi e sassi informi, chiamato l’antro di Polifemo […].» {1}
Secondo quanto riportato da Piermarini, l’arciduca Ferdinando fu talmente soddisfatto della realizzazione da far togliere, in sua presenza, le impalcature delle grotte sottostanti il laghetto prima ancora che fossero finite per vedere come procedevano i lavori. La sua passione per la botanica lo spinse ad arricchire l’area esterna alla reggia con la realizzazione di un orto sperimentale a serre a est e la piantumazione di un patrimonio di piante e fiori rari provenienti da diverse parti del mondo, fra i quali altissime sequoie americane e giganteschi ginko biloba.
Pensato come luogo di svago e di ricevimento, oltre che di delizie, il giardino fu attrezzato di giochi e giostre, analogamente al jeu de bague alla chinese che Maria Antonietta aveva voluto per il Petit Trianon. Il laghetto fu dotato di un ricovero per barche e per cigni che contribuivano a rendere l’amenità del luogo, come testimoniano le incisioni di artisti e i racconti di viaggiatori.
1 - E. Silva, Dell’arte de’ giardini inglesi (1801), a cura di G. Venturi, Milano 1976, p. 262.